leggi le note guarda le foto guarda i video gli interpreti leggi gli articoli guarda il manifesto



"1492 - libri di Lorenzo"
da testi di Francesco Guicciardini, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola, Gerolamo Savonarola e Anton Francesco Grazzini detto "il Lasca"

interpreti:
Sandro Carotti (attore)
Anna Aurigi (soprano)
in alternanza con Ester Castriota, Lucia Focardi, Bianca Rossi Schmidt e Elisabetta Braschi
Gloria Lucchesi (flauti)

drammaturgia: Zauberteatro
regia: Niccolò Rinaldi
ideazione scenica ed allestimento: Mario Librando, Massimo Carotti, Leonardo Lepri
costumi: Valeria Comandini
pupazzi ed oggetti scenici: Leonardo Lepri e Mario Librando



"1492 - libri di Lorenzo" è uno spettacolo pre­sentato per la prima volta nel 1992, in occasio­ne delle ce­le­brazioni laurenziane per il quinto cente­nario della morte del Magnifico, a Firenze alla Villa Medicea di Careggi.
Lo spettacolo ha una struttura itinerante che ha permesso allo spet­tatore di scoprire i vari am­bienti, tutti di grande sug­gestione, delle ville che, di volta in volta, hanno costituito i nostri palco­scenici. Nonostante lo spettacolo sia stato, come detto, a suo tempo, ideato e sviluppato in funzione degli spazi della Villa di Careggi, esso è stato riproposto in numerose Ville, Castelli e Palazzi della Toscana e si è sempre dimostrato estremamente “duttile”. Il risultato è stato lusinghiero anche negli altri spazi; fra questi ci piace ricordare le Ville di Aliano a Montespertoli, di Meleto a Castelfiorentino, l’ex-convento di San Vettore a Gambassi Terme, il Sacro Monte di San Vivaldo sopra Montaione, il Castello di Vincigliata a Fiesole, il Museo Nazionale di Villa Guinigi a Lucca, l’antico Spedale del Bigallo a Bagno a Ripoli e, negli ultimi anni, la Villa di Maiano e il Museo Nazionale del Bargello.
Lo spettacolo ha otte­nuto sempre un considere­vole successo di pubblico e, soprattutto negli anni compresi fra il 1992 ed il 1996, era quasi diventato un appun­tamento fisso per la città. Inusuale è, senza dubbio, nel pa­norama tea­tra­le nazionale, uno spettacolo che viene ri­pro­posto per così tanti anni fino a raggiungere la considerevole quota di oltre centocinquanta repliche. Il successo ci sem­bra dovu­to all'abbina­mento dell'interesse dei luo­ghi scelti ad uno spettaco­lo che possiamo con­si­de­rare, per molti aspetti, particola­re. Una "visita-spettacolo" ci piace defi­nire in­fatti "1492"; i per­sonaggi in scena ten­dono a portare per mano lo spettatore nei lo­ca­li della villa (ma in ma­niera ben più in­trigante di quanto non possa fare una guida turistica). Non di me­no, la scelta dei testi, il per­corso e l'al­lesti­mento, mi­ra­no a valo­rizzare gli spazi che ven­go­no attraversati e da questi, a lo­ro volta, ven­gono amplificati e motivati.
Per non perdere il con­tatto diretto e ravvicina­to con quello che viene racconta­to, con quello che si vede e, per­ché no, con quello che si beve e che si man­gia, gli spetta­tori sono li­mitati nel nu­mero per ogni serata; un grup­petto di popo­lani del Quat­tro­cento, quindi, che se­gue l'at­tore-guida su e giù per i parchi, per i cor­tili, per i saloni e per i sot­terranei.
Per quanto molto co­municativa e spet­tacolare, la dina­mica di "1492" è affi­data, come accennato, ad un solo attore-narra­tore, ad una cantante soprano, ad una flautista e ad una se­rie di effetti a sor­pre­sa svelati, di volta in volta, nei vari spazi. Ogni tappa del per­corso è basa­ta su un'opera del tempo di Lorenzo il Magnifico a lui, in qualche modo, dedi­cata. Loren­zo, però, non appare mai in scena: una serie di voci lo rac­con­tano, lo ricor­dano, gli si rivol­gono.

Mario Librando


Quando muore qualcuno scompare una biblioteca. Così dice un poeta africano e non a caso il no­stro spet­tacolo, che niente ha di funereo, co­mincia con una sor­ta di commemorazione fu­nebre nella quale die­tro il ri­cordo che Guic­ciardini traccia di Lorenzo si nasconde una scomparsa ancora più vasta: di un pen­siero, di un'idea e, appunto, dei "libri di Lorenzo". Non i suoi li­bri, ma le opere su di lui o vicino a lui. Di queste ci ha ammaliato la diversità degli au­tori, dei toni e de­gli scopi, ciascuno col suo modo di vede­re e raccon­tare Lo­renzo.
Francesco Guicciardini snocciola un rac­conto dove nessun particolare è trala­sciato. Che si tratti del bilan­cio sul personaggio del Magnifico o della tu­multuosa congiura de' Pazzi, punto cardinale dell'eserci­zio del potere di Lo­renzo, Guicciar­dini si aggrappa a una me­ticolosa con­catenazione di causa-ef­fetto su causa-ef­fetto. Il de­stino umano è compiuto da un insieme di casi pro­dighi di conse­guenze: la storia è fatta dai det­tagli. Guicciar­dini padroneg­gia una lingua lucida e ta­gliente, un fio­rentino rinascimentale che San­dro Ca­rotti offre senza corre­zione alcuna e che appare, nel voca­bolario forbito e nella costruzione sintatti­ca, uno stru­mento formidabi­le quale metodo di ana­lisi.
Della oceanica letteratura neoplatonica abbiamo scelto i due autori che più hanno animato gli spazi di Careggi: Pico e Ficino, e qui si vola. La disserta­zione sul sole, recitata in una loggetta le cui decora­zioni raf­figurano giustap­punto un sole mediceo, è un tale pozzo di sapienza, di riferimenti, di linguaggi per noi ormai così lontani che teatral­mente abbiamo saputo ri­solve­r­la solo con la semplicità e la disinvol­tura di un gioco. Il giudizio di Pico sulle opere letterarie di Loren­zo, ben ol­tre l'adulazione, è di un'ele­ganza e di un'ar­gomen­ta­zione tali che non ha paura di prendere di petto Dante e Petrarca. E ancora Fi­cino si rivolge al sommo stati­sta europeo evocando l'etica della re­spon­sabi­lità in una luminosa pagina sul rapporto fra uomo e tempo che var­rebbe la pena di fo­to­copiare e distri­buire a tutti noi spet­tato­ri di un'epoca affrettata e sin­te­tica come stru­men­to di medi­ta­zione. Del resto, questi neo­pla­to­nici vive­vano senza ini­bizioni, e sarà di nuovo Pico, di fronte all'in­tero creato, a esal­ta­re il libe­ro arbi­trio in­dividuale co­me l'unica educazione che val­ga la pena di maturare.
Dietro i filosofi si agita il predicatore intransigente. De­mo­lendo la conce­zione del pote­re di Lorenzo, la vo­ce di Savo­narola non fa sconti a nes­suno e riecheggia quasi come un corpo estraneo, col quale i conti si è tentati di farli con una risata. Ma almeno nel Magnifico i piagnoni trovavano un avver­sario forse bef­fardo ma credibi­le; dopo la sua morte non ri­marrà loro che lo scontro finale ed il rogo.
Storici, filosofi, predicatori. Ma il vero monumento a Lo­renzo lo si svela scen­dendo nei bassifondi della so­cietà del tempo, in una bettola nella quale dello stati­sta non viene ricordata dal popolo avvinazza­to nessuna impresa di­plomatica o militare, nessun gesto da me­cenate. La novella del Lasca costi­tuisce un'apoteosi popolare del Magnifico, nella lunga sequela di atroci beffe che sono una delle espressioni più alte del cini­smo e dell'intelligenza fiorenti­na: dal Grasso legnaiuolo del Brunelleschi fino agli in­trighi del Machiavelli. Storie dove per divertirsi si ordi­scono macchinazioni com­plesse e perfette, ma dove la vittima ne esce sempre a pezzi e, come se questo non bastasse, deri­sa a futu­ra memoria. Ma qui il vero prota­gonista è ancora una volta l'unico che non com­pare. L'ombra di Lo­renzo si fonde nell'odore del vino e in una voglia grezza e vitale di essere un corpo unico con l'umanità della città e con la risata.
Di sicuro quando nel 1492 scompare il Magnifico scompare un modo di pensa­re in grande. Lorenzo re­ste­rà l'unico ad avere imbastito un progetto se non di uni­ficazione almeno di riscatto dell'Italia. Pico era an­dato ancora oltre, proponendo un ecu­menismo che parten­do da Platone e dalla Bibbia si riap­proprias­se degli an­tichi riti conciliandoli con gli arabi e la cabbala ebraica, perché sapeva che se non si comincia dalla parte teo­logica non si può appro­dare ad alcun lido. Gli orrori dei secoli successivi fino ai giorni no­stri, alimen­tati da con­trapposizioni etniche, tri­bali, religiose, raz­zia­li e quindi, in definitiva, da una profon­da scissio­ne mentale dell'uomo, sono forse la strada obbligata per una civiltà che non prese in conside­razio­ne i pro­positi di Pico (pragmaticamente ne discusse anche al Vati­cano) per passare, di lì a poco, alla rot­tura con islam ed ebraismo ed alla frattura interna della Riforma e della Controriforma.
1492: anno strano, di capriole della storia e pesanti eredità. Colombo sco­pre il Nuovo Mondo e l'Eu­ropa comin­cerà il lungo cammino dell'espansione imperiali­sti­ca e in seguito della sua de­cadenza. Per un mondo che si apre ambiguamente, al­tri due si chiu­dono all'Eu­ropa: con la caduta di Granata l'islam e la sua tolle­rante civiltà maura, l'alambra, la­sciano per sempre il mondo la­tino, mentre a completa­re un iso­lamento sempre più intol­lerante, an­cora nel 1492 viene decre­tata l'espul­sione degli ebrei. Solo un anno così potente poteva scuo­tere l'avven­tura della villa di Careggi: vi muore Lorenzo e con lui finiscono la signo­ria illuminata, l'unica voce autorevo­le d'Ita­lia, il mecenatismo della corte intellettual­mente più luminosa, e, soprattutto, il respiro di tolle­ranza, dialogo e armonia del cenaco­lo neopla­tonico. Eppure, sicuri della loro va­rie­gata idea di bel­lezza che è intima felici­tà, noi re­stiamo a sfo­gliare i li­bri di Lo­renzo.

Niccolò Rinaldi


Affrontare uno spetta­colo come "1492" è per un in­terprete una vera prova di trasformismo. I vari perso­naggi evocati durante questa visita-spettacolo si pre­sen­tano, come in un caleidoscopio, di volta in volta, differenti: ognuno di questi risulta pertanto caratterizza­to non solo da una propria per­sonalità as­sai distinta, ma an­che dal proprio particolare modo di esprimersi, dai ge­sti, dagli atteggiamenti, dal modo di argomen­tare ma soprattutto dal proprio modo di "utilizzare" la lin­gua. Si alternano in scena infatti il raf­finato storico Guicciar­dini, l'affettato letterato Pico, il di­dattico scien­ziato Ficino, l'ec­cessivo Savona­rola, il truculento Oste, il pe­renne avvinazzato Ma­nente.
La prima difficoltà che ho incontrato, affrontando questo impegno, è stato il la­voro sulla lingua che, ad una prima lettura, mi è sembrata ostica e com­plessa nella sua sintassi. La preoccupazione principale è stata per me quella di og­getti­vizzare fisicamente un'espressione, una comuni­cazione e per far questo ho cerca­to, per essere credibile, una sicurezza di pen­siero e di espressione che poi è la base elementare sulla quale si fonda il mio lavoro.
Ho passato molto tempo a impratichirmi nell'uso di tutti quei termini quali "perocché", "conce-peronne", "drieto" o "drento"; superato questo primo sco­glio, la mia analisi si è concentrata sulla logica intricata del testo, per cercare di render chiari, a chi ascolta, quei punti di appoggio indispen­sabili per evi­denziare e ren­dere viva la narrazione che necessariamente si deve comporre come un "film mentale" della vicenda che scorre libero nella fantasia dello spettatore.
Un lavoro quasi esclusi­vamente basato sulla forza della parola e sul fasci­no evo­cato dalla musicalità di una lingua antica che ci proietta, attore e spet­tatori, fin dalla prima scena, in un tempo di­stante mezzo millen­nio da noi. Una vera sfida, per un attore, che, spo­gliato di tutti quei mezzi tecnici e degli effetti che sono spes­se volte solo la confezione elegante di uno spettacolo di manie­ra, deve que­sta volta giocare solo su tutta la sua forza mentale e fisi­ca, senza quei "paraventi tea­trali" che lo nascondano in caso di insuccesso.
Chiarito questo, non resta all'attore che il pia­cere di ab­bandonarsi con fi­ducia a que­sto viaggio nella me­moria con tutto l'agio e la duttilità di chi è co­sciente e di­sponibile ad essere usato da questi ec­cellenti fanta­smi che, per una sera, rie­cheggiano, mi­steriosi dal passato, nelle stanze della villa di Ca­reggi.

Sandro Carotti