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"1492 - libri di Lorenzo"

i testi dello spettacolo:


Scena Prima
da Francesco Guicciardini
"Storie fiorentine dal 1378 al 1509"

  Era in somma pace la città, uniti e stretti e’ cittadini dello stato, e quello reggimento in tanta potenzia che nessuno si ardiva contradirlo; dilettavasi el popolo ogni dì di spettacoli, di feste e cose nuove; nutrivasi la città coll’essere abundante di vettovaglie e tutti gli esercizi in fiore; pascevansi gli uomini ingegnosi e virtuosi collo essere dato ricapito e condizione a tutte le lettere, a tutte le arte, a tutte le virtù; e finalmente la città sendo drento universalmente in somma tranquillità e quiete, di fuori in somma gloria e riputazione per avere un governo ed un capo di grandissima autorità, per avere frescamente ampliato lo imperio, per essere quasi una bilancia di tutta Italia; nacque uno accidente che rivoltò ogni cosa in contrario, con scompiglio non solo della città, ma di tutta Italia. E questo è che nel detto anno 1491 avendo Lorenzo de’ Medici avuto un male lungo e giudicato nel principio dà medici di non molta importanza, né forse curato con la diligenzia si conveniva, a dì ... di aprile 1492 Lorenzo de’ Medici passò della presente vita.
Fu denotata questa morte come di momento grandissimo da molti presagi: era apparita poco innanzi la cometa; erasi uditi urlare lupi; una donna in Santa Maria Novella infuriata aveva gridato che uno bue colle corna di fuoco ardeva tutta la città; eransi azzuffati insieme alcuni lioni ed uno bellissimo era stato morto dagli altri; ed ultimamente, un dì o dua innanzi alla morte di Lorenzo, di notte una saetta aveva dato nella lanterna della cupola di Santa Liperata e fattone cadere alcune pietre grandissime, le quale caddono verso la casa de’ Medici; ed alcuni anche riputorono portento che maestro Piero Lione da Spuleto, per fama primo medico di Italia, avendo curato Lorenzo, si gittò come disperato in un pozzo e vi annegò, benché alcuni dissono vi era stato gittato drento.
Era Lorenzo de’ Medici di età di anni quarantatré quando morì, ed era stato al governo della città ventitré anni, perché quando morì Piero suo padre nel ‘69 era di anni venti.
Quando morì io ero piccolo fanciullo, ma da persone e luoghi autentichi e degni di fede, e di natura ho saputo ritrarre tutto questo e, se io non mi inganno, ciò che io vi dirò sarà la pura verità.
Furono in Lorenzo molte e preclarissime virtù; furono ancora in lui alcuni vizi, parte naturali, parte necessari. Fu in lui tanta autorità, che si può dire la città non fussi a suo tempo libera, benché abondantissima di tutte quelle glorie e felicità che possono essere in una città, libera in nome, in fatto ed in verità tiranneggiata da uno cittadino.
Nessuno degli avversari e di quegli che l’hanno obtrettato, negano che in lui non fussi uno ingegno grandissimo e singulare.
Fanne fede la amicizia ed el credito grande che ebbe con molti prìncipi in Italia e fuori di Italia: con papa Innocenzio, col re Ferrando di Napoli, col duca Galeazzo, col re Luigi di Francia, infino al Gran turco, al soldano, dal quale negli ultimi anni della sua vita fu presentato di una giraffa, di uno lione e di castroni.
Lorenzo appetì la gloria e la eccellenzia più che alcuno altro, anche nelle cose minime, pel quale non voleva anche ne’ versi, ne’ giuochi, negli esercizi essere pareggiato o imitato da alcuno cittadino, sdegnandosi contro a chi facesse altrimenti.
Lorenzo fece fiorire in Firenze gli studi di umanità sotto messer Agnolo Poliziano, e greci sotto messer Demetrio e poi el Lascari, gli studi di filosofia e di arte sotto Marsilio Ficino, maestro Giorgio Benigno, el conte Pico della Mirandola ed altri uomini eccellenti. Détte el medesimo favore a’ versi vulgari, alla musica, alla architettura, alla pittura, alla scultura, a tutte le arte di ingegno e di industria, in modo che la città era copiosissima di tutte queste gentilezze.
Aiutavalo la sua liberalità infinita, come quando per fare una libreria greca mandò el Lascari, uomo dottissimo e che leggeva greco in Firenze, a cercare insino in Grecia libri antiqui e buoni.
Lorenzo ordinò che in guerra e’ soldati si pagassino al banco de’ Bartolini, dove lui partecipava; e per suo ordine era ritenuta ne’ pagamenti tanta quantità che portava circa a otto per cento, che tornava danno al comune. Così di poi in altro tempo si valse del publico per soccorrere a’ bisogni e necessità sua, che furono più volte sì grandi, che nello 84 fu quasi per fallire.
Lorenzo fu libidinoso e tutto venereo e constante negli amori sua, che duravano parecchi anni; la quale cosa, a giudicio di molti, gli indebolì tanto el corpo, che lo fece morire, si può dire, giovane. L’ultimo amore suo, e che durò molti anni, fu in Bartolomea de’ Nasi, moglie di Donato Benci; nella quale, benché non fussi formosa, ma maniera e gentile, era in modo impaniato, che una vernata che lei stette in villa, partiva di Firenze a cinque o sei ore di notte in sulle poste con più compagni e laandava a trovare, partendosene nondimeno a tale ora, che la mattina innanzi dì fusse in Firenze. Della quale cosa dolendosi molto Luigi dalla Stufa ed el Butta de’ Medici che vi andavono in sua compagnia, lei accortasene gli messe tanto in disgrazia di Lorenzo, che per contentarla mandò Luigi imbasciadore al soldano, ed el Butta al Gran turco. Cosa pazza a considerare che uno di tanta grandezza, riputazione e prudenzia, di età di anni quaranta, fussi sì preso di una donna non bella e già piena di anni, che si conducessi a fare cose che sarebbono state disoneste a ogni fanciullo.
Lorenzo fu molto superbo, tenuto da qualcuno di natura crudele e vendicativo per la durezza che usò nel caso de’ Pazzi.
Ma quello che fu in lui più grave e molesto che altra cosa, fu el sospetto; causato forse non tanto da natura, quanto dal cognoscersi avere a tenere sotto una città libera.
Ed insomma bisogna conchiudere che sotto lui la città non fussi in libertà, nondimeno che sarebbe impossibile avessi avuto un tiranno migliore e più piacevole.
Intesasi in Firenze la morte di Lorenzo, perché morì a Careggi al luogo suo, vi concorse subito moltissimi cittadini a visitare Piero suo figliuolo, al quale, per essere el maggiore, si aparteneva per successione lo stato; e di poi si feciono in Firenze le esequie sanza pompa e suntuosità, ma con concorso di tutti e’ cittadini della città, tutti con qualche segno di bruno, e con dimostrazione di essere morto uno publico padre e padrone della città; la quale sì come in vita sua, raccolto insieme ogni cosa, era stata felice, così doppo la morte sua cadde in tante calamità ed infortuni, che multiplicorono infinitamente el desiderio di lui e la riputazione sua.



Scena Seconda
da Francesco Guicciardini
"Storie fiorentine dal 1378 al 1509"

  Era allora in Firenze la famiglia de’ Pazzi ricchissima più che alcuna altra della città, era nobile nella città e con parentado grande ed uomini molto magnifichi e liberali, e nodimento non avevano mai in alcuno tempo avuto molto stato, per essere tenuti troppo superbi ed altieri, la quale cosa gli uomini in una città libera non possono comportare; pure la nobiltà, el parentado, le ricchezze ed el distribuirle largamente, faceva loro credito ed amici assai. Capo di questa casa era messer Iacopo Pazzi, uomo d’assai riputato e tutto da bene, se si gli fussi levato el vizio di giucare e bestemmiare. Era sanza figliuoli, ma aveva molti nipoti, frà quali uno (figliuolo di messer Piero suo fratello, si chiamava Renato) tenuto uomo savio e di più cervello che alcuno che fussi in casa, e, fuora del solito della famiglia, benvoluto dal popolo. Un altro chiamato Guglielmo, figliuolo di Antonio, aveva per donna una figliuola di Piero di Cosimo, e così veniva a essere cognato di Lorenzo; un altro vi era, chiamato Francesco pure figliuolo di Antonio, quale era sanza donna, uomo molto inquieto animoso ed ambizioso; stavasi a Roma el più del tempo e teneva amicizia grandissima con quegli prelati e massime col conte Girolamo, nipote di papa Sisto.
Pareva a Lorenzo de’ Medici che questa casa fussi troppo grande e che, ogni favore che si gli dessi, crescerebbe tanto che sarebbe pericolosa allo stato suo; e così negli onori e magistrati della città gli teneva adrieto, né dava loro quello grado si sarebbe convenuto. Cominciorono di qui a gonfiare gli animi, a scoprirsi gli odi e le emulazioni, a crescere e’ sospetti; e tanto più quanto, sendo Lorenzo malvoluto da papa Sisto e dal conte Girolamo, gli vedeva essere favoriti dall’uno e l’altro. Il che era nato, perché quando Sisto fu fatto papa, avendosi a vendere Imola, Lorenzo desideroso che la città comperassi Imola e considerando che per essere el papa nuovo nello stato, non aveva danari da comperarla se non ne fussi servito o da sé che era suo depositario, o da’ Pazzi che erano sua tesorieri gli pregò non lo servissino di danari, acciò che non la potendo comperare el papa, Imola venissi nelle mani nostre. Loro lo promessono, e poco di poi servirono el papa per questa compera di ducati trentamila e rivelorono a lui ed al conte Girolamo la richiesta fatta loro da Lorenzo; di che el papa sdegnato, gli tolse la depositeria che gli era di grande utilità, e Lorenzo si dolse assai dé Pazzi e caricogli accusano che per opera loro la città non avessi avuto Imola.
Concepéronne di questo e’ Pazzi grandissimo sdegno; in modo che Francesco, quale per essere di statura piccola si chiamava volgarmente Franceschino, cominciò a tenere pratica col conte Girolamo di tôrre lo stato a Lorenzo.
Aggiunsesi a questo trattato messer Francesco Salviati arcivescovo di Pisa, el quale, quando era in minoribus sendo vacato lo arcivescovado fiorentino l’arebbe ottenuto con favore dal pontefice, se non che Lorenzo colla autorità publica si gli oppose.
Costoro praticando insieme e’ modi a fare tale effetto, si risolverono che el muovere guerra alla città non fussi a proposito per essere cosa lunga pericolosa ed incerta, ed inoltre perché non mancherebbe alla città lo aiuto di qualche potentato d’Italia; ma che era una via sola, di amazzare Lorenzo, il che pareva facile, perché lui andava solo disarmato e sanza sospetto alcuno di simile insulto; e massime sperando che, morto Lorenzo, non mancherebbe loro favori, perché oltre al parentado e potenzia loro, credevano che el popolo, pel desiderio e speranza della antica libertà, gli avessi a seguitare. Faceva in questa conclusione difficultà Giuliano fratello di Lorenzo, perché a amazzarlo insieme con Lorenzo era tanto più difficile, e rimanendo lui non era fatto nulla, perché gli era bene voluto dal popolo, ed inoltre perché avendo e’ cittadini dello stato un capo a chi ricorrere, si pensava piglierebbono le arme e seguirebbenlo.
Conchiusono essere necessario non aspettare più e amazzargli tutt’a dua col modo ed ordine che presto si dirà.
Concorreva in questo trattato non solo el conte Girolamo, ma anche la santità del papa ne era conscia e lo desiderava, benché per rispetto dello onore suo faceva menare el trattato al conte Girolamo.
Concorrevaci anche el re Ferrando di Napoli il quale, sendo confidatissimo ed in grande intelligenzia col pontefice, si era sdegnato che lo stato di Firenze si fussi aderito e collegato con Vinegia e Milano.
Concorrevaci Federigo duca di Urbino, per essersi molti anni innanzi interamente dato e dedicato al re; aggiugnevasi la oportunità di Città di Castello, di che sotto governo della Chiesa era capo messer Lorenzo Iustini da Castello, conscio e fautore di questa pratica ed inimico di Lorenzo.
Questi tanti favori non solo accesono l’arcivescovo e Franceschino, uomini animosi ed inquieti, ma anche lo persuasonoa messer Iacopo, el quale ci era stato un pezzo freddo e renitente, non perché non avessi odio grande verso Lorenzo, ma perché più maturamente considerava quanto la cosa fussi pericolosa e difficile e quanto bello stato e ricchezza e’ mettessi in sul tavoliere. Risolvendosi adunche mettere a effetto el loro pensiero, ed essendosene lo arcivescovo, secondo lo ordine, ito a Pisa, Franceschino a Firenze, Giovan Francesco da Tollentino se ne andò in Romagna nello stato del conte Giralamo e messer Lorenzo Iustini se ne andò a Castello, ciascuno di loro due con ordine di venirne el dì deputato con cavalli e fanterie verso Firenze.
Fatti questi preparamenti secondo e’ disegni loro, partì da Pisa d’aprile 1478 el cardinale di San Giorgio sotto nome di andare a Roma. Innanzi che entrassi in Firenze, sendo convitato da Lorenzo, andò a Fiesole a desinare al luogo suo; e fu el consiglio de’ congiurati dare quivi effetto a tanta opera, ma non eseguirono, rispetto che Giuliano, sentendosi indisposto, non vi venne. Differirono adunche per a Firenze e presono partito per la mattina alla messa, in Santa Liperata, che si ordinava cantare solenne, e dove non facevono dubio s’aveva a trovare Lorenzo e Giuliano.
Venne adunche el cardinale alla messa, accompagnato dall’arcivescovo Salviato, da Giovan Batista de Montesecco condottiere del conte e che era quivi per quella opera, e da molti perugini, tutti venuti a quello effetto; e come el prete che cantava la messa si communicò, come era dato lo ordine ed el segno, Franceschino de’ Pazzi che andava per chiesa a braccia con Giuliano, l’assaltò ed amazzollo. Da altro canto un ser Stefano cancelliere di messer Iacopo con alcuni altri furno adosso a Lorenzo e non bastando loro interamente l’animo, lo ferirono in sulla spalla, Lorenzo si cominciò a discostare e, tratto fuori un pugnale, a difendersi, e concorrendovi brigata, cominciò a ridursi in salvo, ed in quello furore fu morto Francesco Nori che era seco; finalmente Lorenzo, con aiuto di chi era a torno e de’ preti, fu condotto vivo in sagrestia e, chiusa la porta, guardato non potessi essere morto.
Mentre che queste cose si facevano in chiesa, l’arcivescovo, che poco innanzi si era partito accompagnato da molti parenti ed amici, de’ quali la più parte non sapeva nulla, ed alcuni sua fidati e perugini, era ito in palagio per occuparlo, sotto colore di volere visitare la signoria; messer Iacopo Pazzi era in casa a ordine per montare a cavallo e, correndo per la città, gridare “libertà” per sollevare el popolo. Non successe in palagio el disegno allo arcivescovo; anzi, volendo fareviolenzia, fu ributtato e rinchiusesi in certe stanze che vi sono, da se medesimo; di che la signoria, veduto questo tumulto, fece serrare le porte del palagio, con animo di guardarlo e difenderlo da ciascuno. Sopravenne intanto messer Iacopo, e vedendo la porta chiusa volle sforzare el palagio; ma fu ributtato da’ sassi che erano gittati da e’ ballatoi.
Era in questo mezzo corso el romore per la città, e benché in quel principio ognuno fussi spaventato, pure intendendosi Lorenzo essere vivo ed el palagio essere assaltato e difendersi, gli amici dello stato ripresono vigore e, prese le arme, parte se ne andò a soccorso del palagio, parte in Santa Liperata a cavarne Lorenzo e conducerlo vivo a casa. El popolo ancora, parendogli lo amazzare Giuliano, che aveva benivolenzia, stato un atto molto brutto e contra ogni civilità, massime in chiesa in dì solenne; e vedendo el palagio per quella parte, e la vittoria aviarsi di là, e parendo che el volere occupare el palagio fussi un volere occupare la libertà, cominciorno a correre per la terra, gridando “palle palle”, ché tal segno ha l’arme de’ Medici; in modo che sendo el concorso universale per Lorenzo, messer Iacopo si fuggì fuora di Firenze e gli amici di Lorenzo insignoriti dello stato cominciorno a usare la vittoria.
Fu preso lo arcivescovo, che era rinchiuso in palagio, e subito fu impiccato alle finestre del bargello; fu impiccato con lui Iacopo suo fratello, consapevole di ogni cosa; fu impiccato un altro Iacopo Salviati, el quale non sapendo nulla, per la sua mala sorte l’aveva la mattina accompagnato in palagio; furono impiccati tutti quegli perugini ed armati erano seco, ed in tanta confusione e furore alcuni anche innocenti. Fu preso Franceschino, che sendosi per la furia ferito da se medesimo in uno calcagno e però non avendo potuto fuggirsi, si era ridotto in casa, donde sendo cavato e condotto in palagio, fu subito al luogo degli altri impiccato; fu preso el cardinale in Santa Liperata, e per la furia e rabbia del popolo a pena vi fu condotto salvo; fu preso Giovan Batista da Montesecco; furono impiccati el dì più di cinquanta. El dì sequente messer Iacopo, che si era fuggito, non sendo ancora fuora del territorio nostro, fu preso ed esaminato fu impiccato. Renato fu anche impiccato el dì medesimo. Costui prevedendo molto innanzi quale fussi la intenzione di messer Iacopo e degli altri contro a Lorenzo, gli aveva confortati avessino pazienzia e lasciassino fare al tempo, perché Lorenzo nelle mercatantie era in tanto disordine che in pochi anni bisognava fallissi, e perduto le ricchezze ed el credito era perduto lo stato.
Finalmente non giovando le sue parole era, per non vi si trovare, itosene in villa; fu preso quivi e impiccato.
Giovan Batista da Montesecco fu tenuto parecchi giorni preso; esaminato diligentemente, confessò esser venuto a Firenze per comandamento del conte suo padrone ed avere preso el carico di amazzare Lorenzo; e nodimento quando si prese l’ordine per in Santa liperata, essergli venuto orrore rispetto al luogo, e ricusato farlo; di che nacque la salute di Lorenzo, perché se lui pigliava la cura, sendo uomo valente animoso ed esercitato, lo amazzava; fugli tagliato el capo. Fu el cardinale sostenuto molti dì per avere una sicurtà in mano, acciò che el papa non facessi villania a’ mercatanti nostri erano in Roma; finalmente assicurata questa parte, fu licenziato e accompagnato onorevolmente.
Fuggirono ser Stefano e Bernardo Bandini, che tutt’a dua avevono assaltato Lorenzo, e per più sicurtà Bernardo ne andò in Turchia, donde l’anno seguente lo cavò Lorenzo, e condotto a Firenze fu impiccato. Fu preso Guglielmo, e rispetto al parentado e prieghi della moglie sorella di Lorenzo, fu liberato e mandato a’ confini. Furono presi Giovanni fratello di Guglielmo, Andrea, Niccolò e Galeotto fratelli di Renato, tutti innocenti; e furono confinati in perpetuo nelle carcere di Volterra. Fu confiscata la roba di tutti, levate le arme per la città, fu fatto decreto che le figliuole e sorelle de’ morti e confinati non si potessino per alcuno tempo maritare.
Questo tumulto fu di pericolo assai a Lorenzo di perdere e lo stato e la vita, ma gli dette tanta riputazione ed utilità, che quello dì si può chiamare per lui felicissimo; morigli Giuliano suo fratello, col quale arebbe avuta a dividere la roba, e lo stato messo in contesa; furongli levati via gloriosamente e col braccio publico gli inimici sua e quanta ombra e sospetto aveva nella città; el popolo prese le arme per lui e, dubitando della sua vita, corse a casa gridando volere vederlo, e lui si fece alle finestre con grande gaudio di tutti, e finalmente in quello giorno lo ricognobbe padrone della città; fugli dato privilegio dal publico potessi per sicurtà della sua vita menare quanti famigli armati voleva drieto; ed in effetto si insignorì in modo dello stato, che in futurum rimase liberamente ed interamente arbitro e quasi signore della città, e quella potenzia che insino a quello dì era stata in lui grande ma sospettosa, diventò grandissima e sicura. E questo è el fine delle divisione e discordie civile: lo esterminio di una parte; el capo dell’altra diventa signore della città; e’ fautori ed aderenti sua, di compagni quasi sudditi; el popolo e lo universale ne rimane schiavo; vanne lo stato per eredità e spesse volte di uno savio viene in uno pazzo, che poi dà l’ultimo tuffo alla città.



Scena Terza
da Giovanni Pico della Mirandola
"Epistole"

  Ho letto, caro Lorenzo, quelle tue poesie in volgare che le Muse ti ispirarono in tenera età ed ho riconosciuto in esse la prole legittima delle Muse e delle Grazie; ma non mi sono accorto che si trattava di un’opera giovanile. Vorrei mi fosse lecito esprimere la mia opinione senza sospetto di adulazione: vorrei dire che non c’è nessuno degli antichi scrittori che tu non superi di gran lunga in questa forma letteraria. E perché tu non creda che io lo dico per farti piacere, ti renderò ragione di questo mio giudizio. Voi avete due celebrati poeti fiorentini: Francesco Petrarca e Dante Alighieri, a proposito dei quali in genere convien premettere che fra i dotti alcuni rilevano un certo difetto di contenuto in Petrarca, di forma in Dante. Chi abbia mente ed orecchie nulla di simile rimpiangerà nei tuoi versi, in cui è difficile dire se valgano più le cose o le parole.
Ma mettiamo a confronto particolarmente i meriti di ciascuno. Se Francesco tornasse a vivere, chi dubita che per quello che riguarda il contenuto ti concederebbe senz’altro il primato, tanto acuto tu sei sempre, e grave e sottile, mentre egli colora con le parole sentenze prese alla rinfusa, rendendo egregie con l’espressione cose comuni? Ed in ciò appunto si può vedere qual sia la tua, quale la sua superiorità; in talune cose egli può infatti parer più dolce, ma la sua dolcezza mi sembra, per così dire, dolcemente amara e soavemente austera. Egli molce gli animi con l’espressione diffusa e misurata, tu li avvinci con la maestà e lo splendore del discorso. In lui v’è una cura ambiziosa e soverchia, in te negligenza piuttosto che affettazione. Egli è tenero e molle, tu sei maschio e vigoroso. Egli è volubile e canoro, tu denso, pieno, fermo e armonico. Egli è forse più aggraziato, tu certamente più ampio e forte. Egli è più adorno, tu più nervoso. In lui c’è qualcosa di eccessivo, in te nulla di ridondante o di insufficente. Qualcuno forse criticherà la mia audacia perché trovo del soverchio in Petrarca: eppure è così, e così pensano molti, della cui opinione fo gran conto, mentre di nessun valore ritengo la mia. Spesso infatti si può vedere in Petrarca il difetto degli orientali, e cioé come una ridondanza verbale per compiere i versi, una soverchia pienezza e ricercatezza di espressioni, che non abbelliscono il canto, ma sembrano quasi sorreggerlo come trombettieri. In te invece ogni parola è necessaria al concetto e gradevole per l’ornamento; chi ti togliesse qualcosa ti mutilerebbe; chi togliesse a lui, abbellirebbe e purificherebbe.
E se anche conce dessimo, come io non concederò mai, che egli ha scritto versi più eleganti e raffinati, questo è facile merito per un poeta che non doveva combattere con la profondità del contenuto. Quelle tue acute, sottili e, per dirlo con una parola sola, laurenziane sentenze, è difficile dire quanto siano aliene e disformi da ogni aggraziato abbellimento.
Ma confrontiamo ormai te con Dante, del quale non pochi intenderanno forse discutere. Per quel che riguarda lo stile, io credo che nessuno ti negherà il primato, essendo Dante talora irto, aspro, incondito ed estremamente rude e privo d’eleganza. Il che del resto ammettono anche i suoi fautori, ma dandone colpa al tempo. Senza dubbio quindi tu sei più elegante nell’espressione, in cui egli non ti supera; ma egli è ben più grande, diranno, nel contenuto, tanto più alto e sublime. Ma che meraviglia se in un argomento filosofico egli venne filosofando, quando la cosa stessa lo costringeva, offrendogli spontaneamente le espressioni? Del resto, quando tratta di Dio, dell’anima, dei beati, non fa che esporre quello che avevano scritto Agostino e Tommaso, che egli conosceva ed aveva meditato con zelo e assiduità. Fu invece senza alcun dubbio opera di sommo ingegno la tua, di rendere filosofiche le liriche d’amore e di rendere amabili, aggraziandole nella forma, questioni per la loro severità troppo austere. E’ chiara ormai la differenza fra Petrarca, Dante e te.Per quei poeti le Muse erano l’occupazione quotidiana e principale, per te erano un riposo e un ristoro dagli affanni. Per essi erano il maggior lavoro, per te la pace nel lavoro. Eppure, nella pace dell’animo tu raggiungesti quello che forse essi non raggiunsero in una suprema tensione. Forse sono stato troppo prolisso, poiché senza mio volere il soverchio dell’animo mi spingeva a parlare. Ma non smetterò, per quanto io posso, di esortarti a che tutte le volte che potrai rubare un momento di riposo al governo dello stato, lo dedichi a compiere la tua parafrasi per l’utilità e il piacere di noi tutti, per te, per la lingua materna, per l’onore dei tuoi concittadini.
Firenze, 15 luglio 1484



Scena Quarta
da Marsilio Ficino
"De Sole"

  Il Sole è l’occhio eterno che tutto vede, la luce celeste supereminente che regola le cose del cielo e del mondo, che guida e trae l’armonico corso del mondo, del mondo signore, Giove immortale, occhio del mondo che tutto percorre, che possiede il sigillo che forma tutte le figure mondane. La Luna ha nel suo grembo tutte le stelle, la Luna è regina delle stelle. Così Orfeo. In Egitto, sui templi di Minerva, si leggeva quest’aurea iscrizione: “Io sono tutte le cose che sono, che furono e che saranno. Nessuno ha mai lacerato il mio velo. Il frutto da me generato è il So le.” Di qui appare che il Sole è il parto, il fiore, il frutto di Minerva, ossia della divina intelligenza. Gli antichi teologi, secondo la testimonianza di Proclo, dicevano che la giustizia, regina dell’universo, penetra dovunque tutto dirigendo dal trono del Sole, quasi significando che il Sole stesso è regolatore di tutto. Giamblico così espone la dottrina degli Egizi: “Tutto il bene che abbiamo lo abbiamo dal Sole”. Mosé ritiene che il Sole sia di giorno il signore delle cose celesti, e di notte signora sia la Luna quasi Sole notturno.
Platone pensò che il Sole fosse la statua visibile di Dio posta da Dio medesimo in questo tempio del mondo perché da ogni parte tutti la ammirassero sopra tutto. Come dice Plotino, in accordo con Platone, gli antichi veneravano il Sole come Dio.
Del resto chi non si accorge che il Sole è nel mondo l’immagine e il vicario di Dio, costui senza dubbio non ha mai considerato la notte, non ha mai volto lo sguardo al sorgere del Sole, né ha mai pensato quanto il Sole sopravanzi ogni senso, come di colpo renda vive tutte le cose che, lontane da lui, sembravano morte. Costui non si è accorto dei doni del Sole, che da solo compie quello che tutte le stelle non possono fare.
Così come il Sole genera gli occhi e i colori, e agli occhi dà la capacità di vedere e ai colori quella di essere visti, ed entrambi congiunge in unità mediante la luce, così Dio si comporta rispetto a tutti gl’intelletti e agl’intelligibili. Dio infatti crea le specie intelligibili delle cose e gl’intelletti, dando loro una forza propria e naturale. Li circonfonde poi di continuo con una luce comune per mezzo della quale eccita all’atto le virtù degl’intelligibili e degl’intelletti congiungendoli nell’azione.
E questo lume Platone chiama verità rispetto alle cose comprensibili, e scienza nelle menti. Egli pensa che il bene in sé, ossia Dio, trascende tutto questo come il Sole trascende la luce, gli occhi e i colori. Ma quando Platone dice che il Sole supera tutto quello che è visibile, senza dubbio allude a un Sole incorporeo, ossia al divino intelletto.
Ora togli al Sole ogni quantità di materia, ma lasciagli con la luce la potenza, in modo che rimanga la luce dotata di una meravigliosa virtù, non chiusa in alcuna definitezza di quantità o di figura, estesa per uno spazio infinito che riempie tutto con la sua onnipresenza. Pensa ora questa luce che oltrepassa l’intelligenza come quaggiù oltrepassa la vista degli occhi. Così avrai in qualche modo raggiunto, secondo le tue capacità, dal Sole Iddio, che ha posto nel Sole il suo tabernacolo. E poiché nulla è più lontano dalla luce divina dell’informe materia, niente è più lontano dalla luce del Sole che la terra. Così i corpi in cui prevale la condizione terrestre, del tutto alieni come sono dalla luce, non accolgono in sé nessuna luce. E non perché la luce non possa penetrarli. La luce infatti, che non illumina all’interno la lana o il foglio, penetra istantaneamente il cristallo, che pur è così arduo a penetrarsi. Così la luce divina risplende anche nelle tenebre dell’anima, ma le tenebre non la comprendono.



Scena Quinta
da Marsilio Ficino
"Epistolarium familiarium"

  Ti prego mio caro, risparmia il tempo, utilizzalo a pieno e spendilo con parsimonia, affinché tu non t’abbia a pentire dell’irreparabile sperpero. Il grande Teofrasto ha pianto la passata giovinezza, e anche tuo nonno Cosimo, alla mia stessa presenza, sospirò il tempo perduto. Allontana da te le non necessarie preoccupazioni, i divertimenti inutili, gli impegni solo fastidiosi. Liberati da tutto ciò che ti ruba a te stesso.
Mentre puoi, e solo oggi puoi, sii legislatore di te stesso.
“Troppo tardi è la vita di domani, vivi oggi”. Utilizza appieno almeno un’ora al giorno che da sola potrai dire di avere interamente vissuto. Impara soprattutto a vivere con te stesso e poi, se ti piace, anche con gli altri. I falsi piaceri spariscono a guisa di un lampo. Appena appaiono già si mutano nel loro contrario.
Non promettere di fare domani ciò che oggi non sai e neppure saprai se ma l’arai fatto.
“Se sarà sempre e solo domani che mangerai o berrai, forse non morirai in tre giorni, amico?” Questo fallace domani ha ingannato e continua ad ingannare tutti gli uomini della terra, mentre noi a mala pena possediamo il presente e afferrato ci sfugge, non possiamo possederlo che un attimo.
Non riponiamo le nostre speranze nel niente, nel futuro. Se rincorriamo beni futuri inseguiamo fantasmi, corriamo dritti verso la Morte.
Amico, “Stai bene oggi, se starai bene domani, non starai mai bene.”



Scena Sesta
da Gerolamo Savonarola
"Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze"

  Peccatori, ostinati, tepidi, che indugiate infino all’ultimo, pentitevi, fate penitenza. Udite le mie parole coma da Dio venute.
Tiranno è nome di uomo di mala vita, e pessimo tra tutti gli altri uomini, che per forza, sopra tutti vuol regnare.
Ogni tiranno è avaro e ladro, perocchè non solamente ruba il principato, che è di tutto il popolo, ma ancora si usurpa quello, che è del Comune, oltre le cose, che appetisce, e toglie a’ particolari cittadini con cautela e vie occulte, e qualche volta manifeste. E da questo segue, che il tiranno abbia virtualmente tutti i peccati del mondo, perché avendo posto il suo fine nello Stato che tiene, non è cosa che non faccia per mantenerlo.
Ancora il tiranno è pessimo quanto al governo, circa al quale principalmente attende a tre cose: prima che i sudditi non intendano cosa alcuna del governo.
Secondo, cerca di mettere discordia tra i cittadini, non solamente nelle città, ma anche tra i consiglieri e famigliari suoi; perché così, come il regno di un vero e giusto re si conserva per l’amicizia dei sudditi, così la tirannia si conserva per la discordia degli uomini.
Terzo, cerca sempre di abbassare i potenti per assicurarsi, e però ammazza o fa ma capitare gli uomini eccellenti o di roba o di nobiltà o d’ingegno o di altre virtù: e gli uomini savi tiene senza riputazione, e li fa schernire per torgli la fama, acciocché non siano seguitati. Non vuole avere per compagni i cittadini, ma per servi.
Studia di fare che il popolo sia occupato circa le cose necessarie alla vita, e però quanto può, lo tiene magro con gravezze e gabella, e molte volte l’occupa in spettacoli e feste, acciocché pensi a sé e non a lui: e che similmente i cittadini pensino al governo della casa propria e non si occupino nei segreti dello Stato.
Nel governo suo vuol essere occulto. Similmente cerca di apparire religioso e dedito al culto divino; ma fa solamente certe cose esteriori, come andare alle chiese, far certe elemosine, edificare templi e cappelle, o fare paramenti e simili altre cose, per ostentazione.
E molte volte abbassa occultamente gli uomini grandi; e poi che li ha abbassati, li esalta manifestamente ancora più che prima, acciocché loro si reputino obbligati a lui. Usurpasi i denari del Comune, e trova nuovi modi di gravezze ed angherie per congregare pecunia, della quale nutrisce i suoi satelliti.
I suoi satelliti cerca di pagarli della roba d’altri, dando loro uffici, o benefici, che non meritano.
Chi non lo corteggia è notato per nemico. E simula molte volte di voler punire chi ha fatto tal omicidio, ma poi lo fa fuggire occultamente. Ancora il tiranno in ogni cosa vuol essere superiore anche nelle cose minime, e quando per sua virtù non può, cerca d’essere superiore con fraude e con inganni.
E per tenersi più in reputazione è difficile a dare udienza, e molte volte attende a’ suoi piaceri, e fa stare i cittadini di fuori e aspettare, e poi dà loro udienza breve e risposte ambigue.
Ma l’onnipotente Dio, giusto giudice, lo saprà punire come merita, e in questa e nell’altra vita.



Scena Settima
libero adattamento da Antonfrancesco Grazzini, detto “il Lasca”
"Le Cene", cena terza, novella decima

  NOTA BENE: il libero adattamento del testo del Grazzini ha portato alla realizzazione di un “canovaccio” che serve all’attore come traccia, lasciando ampio spazio all’improvvisazione. Ci sembra, pertanto, superfluo inserirlo nella presente scheda.
Riportiamo, di seguito, il testo della “Canzona degli innestatori”, attribuita a Lorenzo il Magnifico, che viene in parte recitata durante la settima scena.
 
“CANZONA DEGL’INNESTATORI”
Donne, noi siam maestri d’innestare;
in ogni modo lo sappiam ben fare.
 Se volete imparar questa nostr’arte,
noi ve la mostreremo a parte a parte,
e’ non bisogna molti studi o carte:
le cose naturali ognun sa fare.
L’arbor che innesti fa’ sia giovinetto,
tenero, lungo, sanza nodi, schietto;
dilicato di buccia, bello e netto,
quando comincia a muovere e gittare.
 Segalo poi e fa’ pel mezzo un fesso:
la marza in ordin sia un terzo o presso;
stretto quanto tu pòi ve lo arai messo,
purché la buccia non facci scoppiare.
Così quanto si può dentro si pigne,
con un buon salcio poi si lega e cigne,
e l’una buccia con l’altra si strigne,
così gli umor’ si posson mescolare.
Sanza fender ancor fassi e s’appicca:
con man la buccia gentilmente spicca
senza intaccarla, e poi la marza ficca;
tra buccia e buccia strigni e lascia fare.
Per quando piove molto ben si fascia;
così fasciato, qualche dì si lascia:
chi lo sfasciassi allora e’ non c’è grascia,
che non facessi la marza sdegnare.
Chi vuol buon olio ancor gli ulivi innesti;
e mele e fichi fansi grossi e presti:
veggo che ’l modo intender voi vorresti;
ma voi il sapete, e fateci parlare.
Di questo modo si fa grande stima:
togli un tondo cotal forato in cima,
un ferro da stampare, e spicca prima
la buccia intorno dove l’occhio appare.
Spicco quell’occhio e presto lo conduco,
ov’io ho preparato prima un buco,
che men d’un grosso un po’ la buccia sdruco;
mettivel drento: e’ suol rammarginare.
Convien con diligenzia ivi si metta:
guasta ogni cosa spesso chi fa in fretta;
rïesce meglio chi ’l suo tempo aspetta;
quando ’gli è in succhio e dolce, è miglior fare.
Noi crediamo oramai che voi sappiate
l’innestare a bucciuolo e quel del frate,
che ne fa tutto l’anno verno e state:
puossi ogni pianta, e pèsche anche innestare.
L’arbor, ch’è prima salvatico e strano,
innestandol si fa di mano in mano
più bello e più gentil, né viene invano,
ma vedete be’ frutti che suol fare.
Donne, noi v’invitiamo a innestar tutte,
se non piove e se van le cose asciutte;
e, se volete pèsche od altre frutte,
noi siamo in punto e ve ne possiam dare.



Scena Ottava - Commiato
da Giovanni Pico della Mirandola
“De hominis dignitate”

Non ti ho dato né volto
né luogo che ti sia proprio,
o Adamo, né alcun dono che ti sia particolare,
affinché i tuoi tratti, il tuo posto, i tuoi doni
tu li scelga, li conquisti e li possieda da solo.
Ti ho posto al centro del mondo
perché tu possa contemplare meglio
ciò che in esso è contenuto.
La natura contiene altre specie
in leggi da me stabilite, ma tu, uomo,
col tuo libero arbitrio ti definisci da te stesso.
Non ti ho fatto né celeste né terrestre,
né mortale né immortale, affinché tu, da solo,
come un provetto scultore,
plasmi la tua immagine.
Allora potrai degenerare nelle creature inferiori,
o, secondo la tua volontà, elevarti alle realtà divine.