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"Lear Minetti Lear"
da "Minetti, ritratto di un artista da vecchio" di Thomas Bernhard

interpreti:
Sergio Ciulli
Alice Reina

regia: Paola Coppi
adattamento e traduzione: Paolo Micciché e Paola Coppi
allestimento e luci: Mario Librando e Massimo Carotti
costumi: Valeria Comandini
frammenti sonori: Ruggero Leoncavallo e Salvo Nicotra
sartoria: Simonetta Pruneti



Minetti, vecchio attore, da tempo lontano dalla scena, torna in teatro.
Costretto dalle sue vicende umane ad entrare dalla parte del pubblico, confuso tra gli spettatori, questo vecchio – ridicolo e maestoso – inizia il suo cammino reale ma nello stesso tempo simbolico verso il palcoscenico, come a riconquistare, nell’ultimo atto di un dramma, il suo spazio naturale: regno e trono…
Un percorso fisicamente breve – la platea e qualche gradino – che si allunga in maniera esasperante per questo personaggio frustrato e testardo. Un percorso colmo di disillusioni, rimproveri, paure, che diviene viaggio interiore attraverso il quale l’attore, scontrandosi con l’ultimo e definitivo rifiuto ed incapace di voltarsi ed uscire, attua un processo di identificazione irreversibile con il mondo al quale tanto brama di appartenere…
La perdita di se stesso è dunque il prezzo da pagare per continuare a recitare. Perdere la propria realtà in una progressiva immedesimazione con un altro grande fallito – anch’esso maestoso e ridicolo - il Lear shakespeariano, Re e “personaggio“ che può esistere soltanto sul palcoscenico.
La riconquista finale del “Trono“ – unico elemento scenico in un palcoscenico nudo – non sarà dunque la vittoria di un uomo-attore che riafferma un proprio ruolo ma la perdita definitiva di un individuo nella schizofrenia di essere “altro“: “l’ideale personaggio “. Sul trono non siederà Minetti ma Lear, colui che l’attore ha cessato di interpretare ed ha scelto di “essere“… La stessa presenza femminile che accompagnerà Minetti nella seconda parte del suo viaggio – silenziosa eppure presente – finirà per assumere il ruolo di una nuova Cordelia che stavolta sopravviverà al Padre per intraprendere un proprio cammino.
Cosa è dunque LearMinetti? Lucida follia e consapevole scelta di un uomo che concepisce la propria esistenza solo in quanto Attore? Semplice ma atroce immagine della miseria e della solitudine della condizione umana? Il Teatro che racconta se stesso, i dubbi, le frustrazioni, la decadenza e forse la propria speranza di continuare a rinascere? Molte e tutte possibili le chiavi di lettura proposte da LearMinetti… Ma quella che soprattutto vorrebbe provare ad essere questa messa in scena è una dichiarazione d’amore al fare teatro.
Dall’incontro vero tra un vecchio attore ed una giovane regista accomunati nel ritrovare l’uno nell’altra la stessa arrendevole passione al mestiere del teatro, nasce la molla prima dell’idea di raccontare con brutalità ma anche con amore incondizionato – tramite una rilettura del testo di Bernhard e una sua maggiore e più profonda comunione con il Lear – quello che non è soltanto un mestiere ma una scelta di vita.

Paola Coppi


Note per l'allestimento di "Lear Minetti Lear"

Non si inventa niente di nuovo, sia ben chiaro. Il “teatro nel teatro” è stato visto in scena innumerevoli volte, sin dai tempi di Shakespeare (ed ancor prima!). Ma in questo caso c’è qualcosa di diverso: direi quasi che è il teatro a creare se stesso in scena.
Infatti, già nel testo originale di Bernhard (ed ancor più nell’adattamento di Coppi e Micciché) il personaggio Minetti “è” il teatro. In questa nostra messa in scena si è voluto andare oltre: la scenografia “è” l’allestimento dello spettacolo.
Diversamente da Bernhard, che ambienta l’attesa del vecchio attore nell’atrio di un albergo, il nostro Minetti ha appuntamento con il direttore del teatro all’interno stesso del teatro. Minetti, già fondamentalmente Lear, nella sua lucida follia (anche se il processo di simbiosi non si è ancora compiuto), si ritrova su un palcoscenico. O meglio, davanti ad un palcoscenico sul quale si sta allestendo uno spettacolo, uno spettacolo senza tempo, che Minetti non riconosce, non conosce. “Come è cambiato … come cambia tutto!”, queste le sue prime parole. Ma il suo destino, in fondo, è già tracciato: il posto di Minetti era e sarà ancora una volta il palco. Per raggiungerlo, però, il tragitto è (almeno nella sua testa) assai tortuoso. Minetti si trova invischiato (mentre la sua mente continua sempre più frequentemente a fondersi con i pensieri di Lear) in una ragnatela di pedane, di piani inclinati, di trabocchetti, di fasci di luce violenti che lo maltrattano. Tutti ostacoli per lui superabili con difficoltà e solo grazie alla coscienza di una vera e propria missione indissolubilmente connessa ad una necessità interiore: essere ancora una volta Lear sul palcoscenico.
Così, scenicamente, la necessità era quella di calare Minetti in una realtà teatrale verosimile ma a lui del tutto estranea. Si è fatto ricorso a veri tecnici di palco (i veri “padroni“ di qualunque palcoscenico teatrale fino al momento del sipario) che, inizialmente incuriositi e divertiti per la goffaggine e la “stranezza” di Minetti, poi quasi ammaliati e, almeno parzialmente, partecipi delle sensazioni del vecchio attore, armeggiano con cavi, fari ed apparecchiature “moderne”. Forte quanto cercato è il contrasto con la scalcinata valigia nella quale Minetti custodisce la maschera che lo trasforma in Lear, con gli antiquati – ma li definirei piuttosto “senza tempo” – oggetti che l’attore di volta in volta estrae dalle sue capienti tasche o ancora con il fare garbato e cortese del signore “d’altri tempi”. Anche la figura femminile, giovane attrice che arriva sul “suo” palcoscenico, che conosce i tecnici e che ripassa la sua parte in attesa dello spettacolo, è, in un primo tempo, quasi disinteressata al vecchio, poi anche lei incuriosita, alla fine irrimediabilmente carpita dal sogno e dalla forza del vecchio attore, definitivamente trasformato in Lear.
Anche le luci hanno un ruolo importante. All’inizio volutamente quasi “casuali” (in fondo sono montate per un altro spettacolo…) esse offrono a Minetti delle zone poco definite all’interno delle quali infilarsi. È lui che deve andare a cercarsele, in questa fase, ma durante la ciclopica ascesa del palcoscenico, gli effetti si fanno sempre più taglienti e secchi fino a trasformarsi completamente, sul palcoscenico vero e proprio, in luci “a pioggia” (o “a candela”) tipicamente teatrali, canoniche, assolutamente classiche.

Mario Librando